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Il sito di Antonio Sarti
che vorrebbe far politica
ma nessuno lo vuole
perché troppo genuino...
forse ingenuo... quindi non gestibile!!!

 

LAVORATORI PUBBLICI E PRIVATI
(OVVERO DIRETTI E INDIRETTI)

            Quanto seguirà sarà semplicemente una attenta e precisa analisi di quanto concerne il mondo del lavoro dipendente, sia questo del comparto privato che del pubblico. Le uniche differenze che si evidenzieranno saranno quelle che vedranno la disparità dei trattamenti che, guarda caso, saranno sempre sfavorevoli per i dipendenti privati: e pensare che sono sempre QUESTI che pagano… l’olio!

          Tanto per cominciare bisogna subito far chiarezza su questi due mondi così
apparentemente simili e, invece, così differenti tra loro.

         
Capire cosa vuol dire “lavoratori diretti” e “lavoratori indiretti, è già una buona base di partenza per fare una attenta analisi, per poi esporre delle critiche; le quali obbligatoriamente, pena una scaduta di onestà, debbono, nella loro “distruttività”  rimettere una costruttività.
          Può essere facile criticare, ma se non si prospetta almeno un’alternativa, la polemica è a portata di mano.

          Per far capire la differenza tra queste due tipologie di lavoratori, diretti e indiretti, occorre rifarsi al mondo produttivo; è qui che si evidenzia in modo incontrovertibile quanto siano opposte queste categorie, pur nella evidente necessità, obbligatorietà della coesistenza.
         Senza scadere nel banale, ma semplicemente per esemplificare in modo chiaro quali sono le differenze, prendiamo alcuni esempi, per dimostrare quali possono essere i lavoratori “diretti”: tornitori, saldatori, muratori, aggiustatori, montatori, meccanici, tipografi, appartengono a questa prima categoria. Sono questi lavoratori coloro i quali nell’espletamento delle loro rispettive mansioni “costruiscono” “producono”, fanno si che con la loro operatività creino quei prodotti che saranno poi oggetto di mercato, di commercio; insomma: quelli che produrranno materialmente quelle merci che, nel vero senso della parola, produrranno la moneta, i soldi!
          Nella seconda categoria, quella dei lavoratori indiretti, troveremo invece centralinisti, impiegati, disegnatori, progettisti, magazzinieri, come anche tutti gli addetti alla contabilità e/o similari. E’ questa una categoria che è indispensabile per completare il cerchio produttivo/commerciale, ma senza quella corposa fetta di lavoratori “diretti” non potrebbero esistere. Qui non esiste l’eterno dubbio dell’uovo e della gallina: se non c’è chi produce la merce da immettere sui mercati per portare a casa soldi, a chi possono fare telefonate o fatturazioni i lavoratori indiretti?

          E’ del tutto evidente che questa esemplificazione è un po’ drastica, ci sono delle categorie, come sempre per esempio, quella dei progettisti o dei venditori, che stanno in una posizione intermedia, non producono, ma mettono in condizione di produrre; non producono manufatti, ma li collocano. Non passano le telefonate, Ma sono altrettanto
indispensabili per far si che il ciclo si completi.
         Rimane comunque il fatto che i costi che riguardano tutti quei lavoratori che non rientrano nel vero e proprio ciclo produttivo, vengono spalmati, abbastanza genericamente, con pochi distinguo, sotto la voce di spese generali, sul prodotto. Non è rilevante se nella genericità delle spese generali sono comprese voci come progettazione, pulizie, telefoni, affitti, provvigioni e quant’altro: rimane sempre il fatto che la base di partenza per fare i costi si parte sempre dal prodotto, dai tempi necessarii alla realizzazione di quel particolare o da quel manufatto; poi, in un secondo momento a questo si sommano le spese generali. Alla fine, e dopo una attenta analisi, indagine di mercato si applicano le percentuali degli utili…… senza dimenticare le tasse: da noi sin troppe! In linea di massima un bel 50 % che va a quel socio neanche tanto occulto che è l’insieme del nostro sistema politico-amministrativo centrale e periferico, CHE ALLA RESA DEI CONTI TI CONTRACCAMBIA CON BEN POCO. Chiedo scusa, ma questa ce la dovevo mettere! Anche perché non ci è dato sapere dove vanno a finire gran parte di tutti quei soldi.

          Spiegato  sommariamente quali siano le differenze basilari sui due principali tipi di lavoratori nel comparto privato, passiamo ora a trasporre il medesimo concetto nei due comparti: privato e pubblico.

          C’è qualcuno che pensa che il comparto pubblico potrebbe esistere senza quello privato?
          Ah si? Mi si dica allora dove si reperirebbero i soldi per pagare tutti i dipendenti pubblici!  
           Ci vorrebbero tante risorse naturali come il petrolio, l’oro, minerali varii, ecc., ma non ne disponiamo. Dobbiamo quindi affrontare il come dotarci di soldi per “mantenerci”; sia sotto l’aspetto generale come la sanità, l’istruzione, la sicurezza. Per l’acquisizione di quelle materie prime di cui non disponiamo: possiamo risolvere il problema in un modo solo, “rimboccandoci le maniche”, testa bassa e produrre! Per la verità, una sorta di materie prime l’avevamo: l’inventiva, la manualità, il nostro
inconfondibile stile, ma ormai anche queste sono state talmente vessate che stanno per finire.

          Ma attenzione, di esempi dove non esistevano le attività private ne abbiamo visti, e si potrebbe dire anche toccati con mano come, tanto per citarne uno per tutti,  l’Unione Sovietica. E dire che stiamo parlando di un paese, enorme, e letteralmente imbottito di ogni genere di ricchezze naturali, petrolio, uranio e ogni altro genere di ben di  Dio. Ciononostante la fame che ha attanagliato, e temo non ancora saziata, quelle genti è un dato di fatto. E il famoso granaio del mondo: dov’è andato a finire? Oggi va un po’ meglio? Guarda caso è stata promossa l’attività privata! O comunque è partita.


           Nel momento stesso che si comprende la differenza tra i lavoratori diretti e quelli indiretti, senza sforzarsi tanto, diviene oltremodo semplice e facile applicare questo basilare concetto nei due grandi comparti: privato e pubblico.

          E qui casca l’asino, anzi: precipita!

          Le stupidaggini cui è stato portato ad accettare tutto il mondo del lavoratore dipendente del comparto privato sono li! Evidenti, solo un cieco può non vederle. C’è qualcuno che mettendo a confronto i due grandi gruppi, che sono l’ oggetto di questo capitolo, ha il coraggio di contestare il fatto che i dipendenti pubblici stanno notevolmente meglio dei loro colleghi del privato?

            Non facciamo come gli struzzi che mettendo la testa sotto la sabbia, dimenticano cosa lasciano fuori.

          Che si parli di pensione, di trattamento economico, di elasticità nel rapporto di lavoro (leggi anche improduttività o marca ed esci a far shopping, assenze, doppi lavori ecc. ecc.), di sicurezza del posto a vita, l’esclusione del fallimento ecc. ecc. non c’è paragone alcuno. Di responsabilità manco a parlarne! Non dimentichiamo inoltre che solo tra i dipendenti pubblici non esiste alcuna coscienza nel riconoscere che stiamo attraversando un periodo altamente critico e congiunturale, prova sta nel fatto che ad ogni piè sospinto questi non esitano un attimo nel rivendicare continuamente miglioramenti economici: alla facciaccia dei loro colleghi del privato, che sempre più debbono stringere la cintura. Si sempre loro: quelli che pagano l’olio.
            Vorrei stendere una bella coltre, spessa, molto spessa sui disagi che gli scioperi di questi irriconoscenti, sobillati da un sindacalismo da reclusione, gettano sull’intera popolazione; in linea di massima sugli stessi che consentono la loro esistenza.

            La costruttività consisterebbe in primo luogo ad abrogare quella stupidaggine che è l’art. 18, di quella “abnormità” che è la legge 300, altrimenti detta “Statuto dei Lavoratori”. Poi bisognerebbe che i dipendenti pubblici al pari dei loro colleghi del privato fossero anch’essi soggetti alle medesime normative generali e, specialmente fossero anch’essi soggetti a tutte quelle penalizzazioni proprie degli andamenti economici: contemplando in questo anche, se non riduzioni, quantomeno anacronistiche rivendicazioni monetarie. Se non ce n’è, non ce ne deve essere anche per loro!


          Qui vorrei chiudere qui la prima parte di questo capitolo.
Stimolerei comunque il paziente, attento e onesto lettore a cercare quelle cause che hanno prodotto questi effetti. Personalmente ritengo che di cause ce ne sia una sola: quel sindacalismo esasperato che in questi ultimi cinquanta anni, e forse di più, ha condizionato questo povero ex Bel Paese. Vittime, comunque non sempre consapevoli, i
lavoratori stessi. Alcuni di più, alcuni di meno. Ovvero, per certi versi le penalizzazioni sono state comuni, come tasse e ammennicoli varii, altre, anzi molte altre, sono risultate più a scapito dei dipendenti privati. Non ricordo situazioni che vedano, almeno una volta nel corso di questo mezzo secolo, un’alternanza.
         Non va sottaciuto comunque il fatto che questo sindacalismo, certamente becero
e fazioso ad oltranza, altro non era che l’arma, la lunga mano dei partiti politici: TUTTI! Per portare a casa consensi. Ho usato l’ imperfetto per una evidente situazione. Già mezzo secolo fa, se non oltre, partiva dal grembo dei partiti l’azione sindacale; per onestà morale dico, e ne sono fermamente convinto, che in quegli anni quelle rivendicazioni erano sacrosante, lo sfruttamento dei lavoratori era tale che questi erano veramente trattati da animali, e forse peggio. Strada facendo però, nel momento stesso che un certo senso di giustizia era stato raggiunto; diciamo che in linea di massima la classe lavoratrice aveva raggiunto all’incirca i livelli degli altri paesi occidentali e industrializzati, era senza ombra di dubbio il momento di cessare le ostilità. Erano stati raggiunti dei buoni traguardi: era il caso di abbassare le armi, era il caso di definire il “padrone” con meno ostilità e odio.
          Ma ai partiti politici, tutti quei voti che avevano portato a casa mediante quel tipo di sindacalismo, chi li avrebbe mantenuti? Vi figurate un partito politico, qualsiasi, che andando nelle piazze, in proprio o tramite il proprio sindacato, rivolgendosi alle masse avesse detto: è giunto il momento di smetterla di fare la guerra ai “padroni”, adesso bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare!?
          Giammai!!!!!!!!!  E chi ci vota più? E chi ci prende più la tessera?
          E allora ecco nascere il più bello degli intrallazzi: Manteniamo viva la lotta, tanto le masse bevono di tutto, in maniera che si possa mantenere sempre viva una certa conflittualità, alla grande industria regaliamo zuccherini e carne al Sabato coi soldi degli stessi lavoratori, e così facendo abbiamo finalmente trovato il moto perpetuo. Politica e sindacalismo si sono perpetuati nelle loro poltrone, ben comode e imbottite; la grande industria con la cassa integrazione è stata volgarmente finanziata coi
soldi pubblici la mano d’opera e via così.
           Come funziona la cassa integrazione? E’ presto detto: quando c’è lavoro e lo voglio sfruttare nel migliore dei modi metto gli operai al lavoro, quando non ne ho li faccio mantenere dalla collettività; così appena mi riprende il lavoro eccoli li, belli e pronti “addestrati” “preparati” (incavolati neri perché hanno dovuto cessare il secondo lavoro in nero) a produrre di nuovo, sino alla prossima CIG.
           Differente divenne invece il sentimento da destinarsi al piccolo imprenditore, mal rappresentato e certo meno scaltro, d’altronde qualcosa o qualcuno bisognava pur darlo in pasto ai tesserati.
           E le masse bevevano….. bevono….. berranno…..


                 COSTO DEL LAVORO.

         La base sulla quale costruire questa seconda analisi è di carattere temporale e relativi costi; ogni riferimento che evidenzierò di seguito è annuale.

        Qui nessuno mi può smentire: ogni anno è composto da dodici mesi.

        Le retribuzioni invece, vera inammissibile giungla, del calendario solare se ne strafregano altamente. Ci sono i dipendenti dell’artigianato e dell’industria che vedono tredici mensilità per ciascun anno, poi ci sono quelli del commercio che ne vedono quattordici, poi ce ne sono altri che arrivano anche oltre, ho sentito parlare addirittura di sedici mensilità (non certo per dip-privati); per onestà di calcolo e morale non posso certo prendere in considerazione quei dipendenti che rientrano nei massimi, così come non sono disponibile a considerare le mensilità retribuite, per fare i calcoli che seguiranno, al minimo. Credo sia sufficientemente onesto considerare un compromesso che vede in tredici mesi e mezzo una media che semmai si potrebbe discostare per difetto dalla realtà.
          Convenzionalmente per ogni mese si considerano 22 le giornate di lavoro (o almeno le giornate di…… presenza sul luogo di lavoro); il conteggio che segue corrisponderà quindi alle giornate retribuite in capo ad un anno:

                          13,5 x 22 = 297

          Ogni anno lavorato costituisce il diritto al lavoratore di percepire il Trattamento di Fine Rapporto, il famoso TFR, il quale corrisponde ad una mensilità, ovvero a 22 giorni, da sommarsi ovviamente alle giornate testè indicate. Il conteggio risulterà:

                         297 + 22 = 319

          Ciascuna azienda, pubblica o privata che sia, corrisponde ai propri dipendenti, o
collaboratori che dir si voglia, l’equivalente di: 319 giornate.


          Vediamo ora il contratare: ovvero quante sono effettivamente le giornate lavorate.

          Sempre nell’incontrovertibile dato che vede in dodici, i mesi di ciascun anno, sottraiamo a questi un mese di ferie: queste non si negano a nessuno, meritate o meno non fa differenza

                             12 – 1 = 11

Pari a 11 x 22 = 242, queste sono le giornate lavorative, al netto dalle ferie, alle quali vanno ovviamente sottratte mediamente 3 settimane di malattia, vera o presunta, e all’incirca altri 5 giorni, pari ad una settimana di lavoro per permessi vari retribuiti, per un totale di un altro mesetto, il tutto pari sempre a 22 giornate; ne consegue quindi che le giornate di effettiva presenza sul posto di lavoro sono:

                         242 – 22 = 220

           Non occorre essere dei grandi matematici per vedere la grande differenza che esiste tra le giornate retribuite e quelle di effettiva presenza sul luogo di lavoro; ad ogni buon conto faccio seguire le prossime valutazioni, meramente aritmetiche:

          Se le giornate retribuite sono 319 e quelle di presenza sono 220, la differenza è di 99; giorni che incidono sulla effettiva presenza e sono pari al….. udite, udite:

                            45 %

OGNI GIORNATA LAVORATIVA, OGNI MINUTO DEDICATO AL LAVORO, SOTTO IL PROFILO DELLA PRODUTTIVITA’ VIENE AGGRAVATO DAL MODESTO BALZELLO DEL 45%,
MODESTO? SI FA PER DIRE!

 
A questo va aggiunto qualche altro ammennicolo, non del tutto insignificante.
         PRODUTTIVITA’: E’
Innegabile che la dedizione al proprio lavoro è andata sempre più scemando. Da alcuni decenni per quella delinquenziale forma di lotta sindacale che passa sotto il nome di “lotta di classe”, più viva che mai, possiamo constatare che dedizione e amore per il proprio lavoro sono solo dei vecchi, vecchissimi ricordi. Da aggiungersi poi il fatto che il lavoratore che se ne strafrega non è per niente penalizzabile. Il bello è che conseguentemente quel datore di lavoro è ulteriormente penalizzato, perché dovrà assistere ad un bravo dipendente che poco a poco diverrà anch’egli un menefreghista: d’altronde chi glielo fa fare di continuare ad applicarsi? 
          In virtù, se così la si può definire, di quella lotta di classe inculcata in menti che spesso non vedono oltre la punta del proprio naso, il “padrone” viene sempre più visto come il nemico da combattere, lo sfruttatore da distruggere. Ormai quasi nessuno pensa al proprio datore di lavoro come ad una persona che a sua volta deve affrontare un mare di problemi e che non sempre vede nei suoi collaboratori pura e semplice carne da macello.
           Non che gli imprenditori siano tutti degli angioletti, ma se alcuni di questi hanno portato avanti dei comportamenti, poco o tanto discutibili a chi addossare la colpa? Certamente qualcuno lo avrà fatto per pura dedizione all’avidità con relativa estrema spregiudicatezza e/o peggio, ma quanti altri lo hanno fatto solo e semplicemente per sopravvivere con le proprie famiglie ad uno stato di trattamento a dir poco delinquenziale?
            Sindacati e politici non si chiamino fuori!

           GLOBALIZZAZIONE: E’ questo un altro aspetto che sicuramente penalizza il mercato del lavoro. Non è una novità che alcuni paesi sviluppano concorrenze basate esclusivamente sui prezzi, godendo di salari estremamente bassi, su regole non regole, ma comunque con dedizioni al lavoro che noi manco ci sognamo. Va rimarcato che il produrre a prezzi estremamente concorrenziali non è frutto del mero e semplice basso costo della mano d’opera; concorrono a questa soluzione anche la dedizione al lavoro, alla produttività di squadra (ivi incluso il rispetto verso il datore di lavoro), alla serietà in generale.
            Non dimentichiamo che alcuni decenni or sono, all’epoca del nostro boom economico, fine anni 50 e inizio anni 60, anche noi facevamo le stesse cose. I lavoratori erano per lo più degni di questo nome, molti erano da definirsi con la “L” maiuscola.
            Poi c’è stato il periodo in cui una certa politica e sindacalizzazione estrema, un po’ alla volta ha distrutto tutto ciò. Conseguentemente i nostri, e non solo i nostri, imprenditori, vista l’impossibilità di poter produrre e soddisfare quelle clientele che dei nostri validi prodotti facevano continue richieste, un po’ perché forse dei veri e propri imprenditori, di quelli con le palle (pardon, ma quando ci vuole ci vuole) non ce n’erano poi tanti, un po’ perché fu più facile stare al gioco, ma molto perché non ce la fecero a resistere a ricatti ed ostruzionismi e sabotaggi di ogni sorta, furono costretti ad abbassare teste e… brache; o comunque accettare di stare al gioco: a quei giochi! Ad ogni buon conto quel periodo (non ancora scaduto) lo si può classificare in una specie di connivenza ben ricambiata.
            
Chi non volle, ma questo vale sino a tutt’oggi, stare a quei compromessi, chi era nelle condizioni di poterselo permettere, si trasferì. Si trasferì in paesi dove l’imprenditore era desiderato, stimato e finanche benvoluto, altro che qui che visto come il fumo negli occhi. Quanti paesi stranieri hanno steso tappeti ai nostri imprenditori, piuttosto che trappole come qui da noi?
           
Nacque così la “delocalizzazione”. Bella parola per dire che se qui in patria, a casa mia, mi rompi le scatole per produrre, mantenere la mia famiglia, e con essa anche quelle dei miei dipendenti, vado invece dove posso produrre con tanti vantaggi in più e senza farmi sputare in faccia, anzi.
         E questo è stato solo l’inizio di quel disastro economico che tutte le nazioni che non disponevano di risorse naturali, e forse non solo quelle, e che facevano del loro lavoro la ricchezza propria e nazionale, hanno subito.
          Non dimentichiamo che alcuni decenni or sono molte industrie che producevano macchine fotografiche, e subito dopo, industrie motociclistiche, si “delocarizzarono” in estremo oriente: Vogliamo ricordarci che fine fecero quelle industrie? Anni dopo lo stesso avvenne con le grandi industrie automobilistiche, non passa per la mente di nessuno che è sempre la stessa strada che inesorabilmente porta al definitivo de
profundis?  
         Come era facilmente prevedibile si è esportata tecnologia e marketing, al punto tale che poi ci è tornata sotto forma di una naturale e più che ovvia concorrenza:


MA SI PUO’ ANCORA ANDARE
AVANTI COSI’?

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