LAVORATORI
PUBBLICI E PRIVATI
(OVVERO DIRETTI E
INDIRETTI)
Quanto seguirà sarà semplicemente una attenta e precisa analisi di
quanto concerne il mondo del lavoro dipendente, sia questo del comparto
privato che del pubblico. Le uniche differenze che si evidenzieranno
saranno quelle che vedranno la disparità dei trattamenti che, guarda
caso, saranno sempre sfavorevoli per i dipendenti privati: e pensare che
sono sempre QUESTI che pagano… l’olio!
Tanto per
cominciare bisogna subito far chiarezza su questi due mondi così
apparentemente simili e, invece, così differenti tra loro.
Capire cosa vuol dire “lavoratori diretti” e “lavoratori
indiretti, è già una buona base di partenza per fare una attenta
analisi, per poi esporre delle critiche; le quali obbligatoriamente,
pena una scaduta di onestà, debbono, nella loro “distruttività”
rimettere una costruttività.
Può essere
facile criticare, ma se non si prospetta almeno un’alternativa, la
polemica è a portata di mano.
Per far capire la
differenza tra queste due tipologie di lavoratori, diretti e indiretti,
occorre rifarsi al mondo produttivo; è qui che si evidenzia in modo
incontrovertibile quanto siano opposte queste categorie, pur nella
evidente necessità, obbligatorietà della coesistenza.
Senza scadere nel
banale, ma semplicemente per esemplificare in modo chiaro quali sono le
differenze, prendiamo alcuni esempi, per dimostrare quali possono essere
i lavoratori “diretti”: tornitori, saldatori, muratori,
aggiustatori, montatori, meccanici, tipografi, appartengono a questa
prima categoria. Sono questi lavoratori coloro i quali
nell’espletamento delle loro rispettive mansioni “costruiscono”
“producono”, fanno si che con la loro operatività creino quei
prodotti che saranno poi oggetto di mercato, di commercio; insomma:
quelli che produrranno materialmente quelle merci che, nel vero senso
della parola, produrranno la moneta, i soldi!
Nella seconda
categoria, quella dei lavoratori indiretti, troveremo invece
centralinisti, impiegati, disegnatori, progettisti, magazzinieri, come
anche tutti gli addetti alla contabilità e/o similari. E’ questa una
categoria che è indispensabile per completare il cerchio
produttivo/commerciale, ma senza quella corposa fetta di lavoratori
“diretti” non potrebbero esistere. Qui non esiste l’eterno dubbio
dell’uovo e della gallina: se non c’è chi produce la merce da
immettere sui mercati per portare a casa soldi, a chi possono fare
telefonate o fatturazioni i lavoratori indiretti?
E’ del tutto
evidente che questa esemplificazione è un po’ drastica, ci sono delle
categorie, come sempre per esempio, quella dei progettisti o dei
venditori, che stanno in una posizione intermedia, non producono, ma
mettono in condizione di produrre; non producono manufatti, ma li
collocano. Non passano le telefonate, Ma sono altrettanto
indispensabili per far si che il ciclo si completi.
Rimane comunque il
fatto che i costi che riguardano tutti quei lavoratori che non rientrano
nel vero e proprio ciclo produttivo, vengono spalmati, abbastanza
genericamente, con pochi distinguo, sotto la voce di spese generali, sul
prodotto. Non è rilevante se nella genericità delle spese generali
sono comprese voci come progettazione, pulizie, telefoni, affitti,
provvigioni e quant’altro: rimane sempre il fatto che la base di
partenza per fare i costi si parte sempre dal prodotto, dai tempi
necessarii alla realizzazione di quel particolare o da quel manufatto;
poi, in un secondo momento a questo si sommano le spese generali. Alla
fine, e dopo una attenta analisi, indagine di mercato si applicano le
percentuali degli utili…… senza dimenticare le tasse: da noi sin
troppe! In linea di massima un bel 50 % che va a quel socio neanche
tanto occulto che è l’insieme del nostro sistema
politico-amministrativo centrale e periferico, CHE ALLA RESA DEI CONTI
TI CONTRACCAMBIA CON BEN POCO. Chiedo scusa, ma questa ce la dovevo
mettere! Anche perché non ci è dato sapere dove vanno a finire gran
parte di tutti quei soldi.
Spiegato
sommariamente quali siano le differenze basilari sui due principali tipi
di lavoratori nel comparto privato, passiamo ora a trasporre il medesimo
concetto nei due comparti: privato e pubblico.
C’è qualcuno
che pensa che il comparto pubblico potrebbe esistere senza quello
privato?
Ah si? Mi si dica
allora dove si reperirebbero i soldi per pagare tutti i dipendenti
pubblici!
Ci
vorrebbero tante risorse naturali come il petrolio, l’oro, minerali
varii, ecc., ma non ne disponiamo. Dobbiamo quindi affrontare il come
dotarci di soldi per “mantenerci”; sia sotto l’aspetto generale
come la sanità, l’istruzione, la sicurezza. Per l’acquisizione di
quelle materie prime di cui non disponiamo: possiamo risolvere il
problema in un modo solo, “rimboccandoci le maniche”, testa bassa e
produrre! Per la verità, una sorta di materie prime l’avevamo:
l’inventiva, la manualità, il nostro
inconfondibile stile, ma ormai anche queste sono state talmente vessate
che stanno per finire.
Ma attenzione, di
esempi dove non esistevano le attività private ne abbiamo visti, e si
potrebbe dire anche toccati con mano come, tanto per citarne uno per
tutti, l’Unione Sovietica. E dire che stiamo parlando di un
paese, enorme, e letteralmente imbottito di ogni genere di ricchezze
naturali, petrolio, uranio e ogni altro genere di ben di Dio.
Ciononostante la fame che ha attanagliato, e temo non ancora saziata,
quelle genti è un dato di fatto. E il famoso granaio del mondo: dov’è
andato a finire? Oggi va un po’ meglio? Guarda caso è stata promossa
l’attività privata! O comunque è partita.
Nel momento
stesso che si comprende la differenza tra i lavoratori diretti e quelli
indiretti, senza sforzarsi tanto, diviene oltremodo semplice e facile
applicare questo basilare concetto nei due grandi comparti: privato e
pubblico.
E qui casca
l’asino, anzi: precipita!
Le stupidaggini
cui è stato portato ad accettare tutto il mondo del lavoratore
dipendente del comparto privato sono li! Evidenti, solo un cieco può
non vederle. C’è qualcuno che mettendo a confronto i due grandi
gruppi, che sono l’ oggetto di questo capitolo, ha il coraggio di
contestare il fatto che i dipendenti pubblici stanno notevolmente meglio
dei loro colleghi del privato?
Non
facciamo come gli struzzi che mettendo la testa sotto la sabbia,
dimenticano cosa lasciano fuori.
Che si parli di
pensione, di trattamento economico, di elasticità nel rapporto di
lavoro (leggi anche improduttività o marca ed esci a far shopping,
assenze, doppi lavori ecc. ecc.), di sicurezza del posto a vita,
l’esclusione del fallimento ecc. ecc. non c’è paragone alcuno. Di
responsabilità manco a parlarne! Non dimentichiamo inoltre che solo tra
i dipendenti pubblici non esiste alcuna coscienza nel riconoscere che
stiamo attraversando un periodo altamente critico e congiunturale, prova
sta nel fatto che ad ogni piè sospinto questi non esitano un attimo nel
rivendicare continuamente miglioramenti economici: alla facciaccia dei
loro colleghi del privato, che sempre più debbono stringere la cintura.
Si sempre loro: quelli che pagano l’olio.
Vorrei stendere una bella coltre, spessa, molto spessa sui disagi che
gli scioperi di questi irriconoscenti, sobillati da un sindacalismo da
reclusione, gettano sull’intera popolazione; in linea di massima sugli
stessi che consentono la loro esistenza.
La costruttività consisterebbe in primo luogo ad abrogare quella
stupidaggine che è l’art. 18, di quella “abnormità” che è la
legge 300, altrimenti detta “Statuto dei Lavoratori”. Poi
bisognerebbe che i dipendenti pubblici al pari dei loro colleghi del
privato fossero anch’essi soggetti alle medesime normative generali e,
specialmente fossero anch’essi soggetti a tutte quelle penalizzazioni
proprie degli andamenti economici: contemplando in questo anche, se non
riduzioni, quantomeno anacronistiche rivendicazioni monetarie. Se non ce
n’è, non ce ne deve essere anche per loro!
Qui vorrei
chiudere qui la prima parte di questo capitolo.
Stimolerei comunque il paziente, attento e onesto lettore a cercare
quelle cause che hanno prodotto questi effetti. Personalmente ritengo
che di cause ce ne sia una sola: quel sindacalismo esasperato che in
questi ultimi cinquanta anni, e forse di più, ha condizionato questo
povero ex Bel Paese. Vittime, comunque non sempre consapevoli, i
lavoratori stessi. Alcuni di più, alcuni di meno. Ovvero, per certi
versi le penalizzazioni sono state comuni, come tasse e ammennicoli
varii, altre, anzi molte altre, sono risultate più a scapito dei
dipendenti privati. Non ricordo situazioni che vedano, almeno una volta
nel corso di questo mezzo secolo, un’alternanza.
Non va sottaciuto
comunque il fatto che questo sindacalismo, certamente becero
e fazioso ad oltranza, altro non era che l’arma, la lunga mano dei
partiti politici: TUTTI! Per portare a casa consensi. Ho usato l’
imperfetto per una evidente situazione. Già mezzo secolo fa, se non
oltre, partiva dal grembo dei partiti l’azione sindacale; per onestà
morale dico, e ne sono fermamente convinto, che in quegli anni quelle
rivendicazioni erano sacrosante, lo sfruttamento dei lavoratori era tale
che questi erano veramente trattati da animali, e forse peggio. Strada
facendo però, nel momento stesso che un certo senso di giustizia era
stato raggiunto; diciamo che in linea di massima la classe lavoratrice
aveva raggiunto all’incirca i livelli degli altri paesi occidentali e
industrializzati, era senza ombra di dubbio il momento di cessare le
ostilità. Erano stati raggiunti dei buoni traguardi: era il caso di
abbassare le armi, era il caso di definire il “padrone” con meno
ostilità e odio.
Ma ai partiti
politici, tutti quei voti che avevano portato a casa mediante quel tipo
di sindacalismo, chi li avrebbe mantenuti? Vi figurate un partito
politico, qualsiasi, che andando nelle piazze, in proprio o tramite il
proprio sindacato, rivolgendosi alle masse avesse detto: è giunto il
momento di smetterla di fare la guerra ai “padroni”, adesso bisogna
rimboccarsi le maniche e lavorare!?
Giammai!!!!!!!!!
E chi ci vota più? E chi ci prende più la tessera?
E allora ecco
nascere il più bello degli intrallazzi: Manteniamo viva la lotta, tanto
le masse bevono di tutto, in maniera che si possa mantenere sempre viva
una certa conflittualità, alla grande industria regaliamo zuccherini e
carne al Sabato coi soldi degli stessi lavoratori, e così facendo
abbiamo finalmente trovato il moto perpetuo. Politica e sindacalismo si
sono perpetuati nelle loro poltrone, ben comode e imbottite; la grande
industria con la cassa integrazione è stata volgarmente finanziata coi
soldi pubblici la mano d’opera e via così.
Come
funziona la cassa integrazione? E’ presto detto: quando c’è lavoro
e lo voglio sfruttare nel migliore dei modi metto gli operai al lavoro,
quando non ne ho li faccio mantenere dalla collettività; così appena
mi riprende il lavoro eccoli li, belli e pronti “addestrati”
“preparati” (incavolati neri perché hanno dovuto cessare il secondo
lavoro in nero) a produrre di nuovo, sino alla prossima CIG.
Differente
divenne invece il sentimento da destinarsi al piccolo imprenditore, mal
rappresentato e certo meno scaltro, d’altronde qualcosa o qualcuno
bisognava pur darlo in pasto ai tesserati.
E le masse
bevevano….. bevono….. berranno…..
COSTO DEL LAVORO.
La base sulla quale
costruire questa seconda analisi è di carattere temporale e relativi
costi; ogni riferimento che evidenzierò di seguito è annuale.
Qui nessuno mi può smentire:
ogni anno è composto da dodici mesi.
Le retribuzioni invece, vera
inammissibile giungla, del calendario solare se ne strafregano
altamente. Ci sono i dipendenti dell’artigianato e dell’industria
che vedono tredici mensilità per ciascun anno, poi ci sono quelli del
commercio che ne vedono quattordici, poi ce ne sono altri che arrivano
anche oltre, ho sentito parlare addirittura di sedici mensilità (non
certo per dip-privati); per onestà di calcolo e morale non posso certo
prendere in considerazione quei dipendenti che rientrano nei massimi,
così come non sono disponibile a considerare le mensilità retribuite,
per fare i calcoli che seguiranno, al minimo. Credo sia sufficientemente
onesto considerare un compromesso che vede in tredici mesi e mezzo una
media che semmai si potrebbe discostare per difetto dalla realtà.
Convenzionalmente
per ogni mese si considerano 22 le giornate di lavoro (o almeno le
giornate di…… presenza sul luogo di lavoro); il conteggio che segue
corrisponderà quindi alle giornate retribuite in capo ad un anno:
13,5 x 22 = 297
Ogni anno
lavorato costituisce il diritto al lavoratore di percepire il
Trattamento di Fine Rapporto, il famoso TFR, il quale corrisponde ad una
mensilità, ovvero a 22 giorni, da sommarsi ovviamente alle giornate
testè indicate. Il conteggio risulterà:
297 + 22 = 319
Ciascuna azienda,
pubblica o privata che sia, corrisponde ai propri dipendenti, o
collaboratori che dir si voglia, l’equivalente di: 319 giornate.
Vediamo ora il
contratare: ovvero quante sono effettivamente le giornate lavorate.
Sempre
nell’incontrovertibile dato che vede in dodici, i mesi di ciascun
anno, sottraiamo a questi un mese di ferie: queste non si negano a
nessuno, meritate o meno non fa differenza
12 – 1 = 11
Pari a 11 x 22 = 242, queste sono le giornate lavorative, al netto dalle
ferie, alle quali vanno ovviamente sottratte mediamente 3 settimane di
malattia, vera o presunta, e all’incirca altri 5 giorni, pari ad una
settimana di lavoro per permessi vari retribuiti, per un totale di un
altro mesetto, il tutto pari sempre a 22 giornate; ne consegue quindi
che le giornate di effettiva presenza sul posto di lavoro sono:
242 – 22 = 220
Non occorre
essere dei grandi matematici per vedere la grande differenza che esiste
tra le giornate retribuite e quelle di effettiva presenza sul luogo di
lavoro; ad ogni buon conto faccio seguire le prossime valutazioni,
meramente aritmetiche:
Se le giornate
retribuite sono 319 e quelle di presenza sono 220, la differenza è di
99; giorni che incidono sulla effettiva presenza e sono pari al…..
udite, udite:
45 %
OGNI GIORNATA LAVORATIVA, OGNI MINUTO DEDICATO AL LAVORO, SOTTO IL
PROFILO DELLA PRODUTTIVITA’ VIENE AGGRAVATO DAL MODESTO BALZELLO DEL
45%,
MODESTO? SI FA PER DIRE!
A questo va aggiunto qualche altro ammennicolo, non del tutto
insignificante.
PRODUTTIVITA’: E’
Innegabile che la dedizione al proprio lavoro è andata sempre più
scemando. Da alcuni decenni per quella delinquenziale forma di lotta
sindacale che passa sotto il nome di “lotta di classe”, più viva
che mai, possiamo constatare che dedizione e amore per il proprio lavoro
sono solo dei vecchi, vecchissimi ricordi. Da aggiungersi poi il fatto
che il lavoratore che se ne strafrega non è per niente penalizzabile.
Il bello è che conseguentemente quel datore di lavoro è ulteriormente
penalizzato, perché dovrà assistere ad un bravo dipendente che poco a
poco diverrà anch’egli un menefreghista: d’altronde chi glielo fa
fare di continuare ad applicarsi?
In virtù, se così
la si può definire, di quella lotta di classe inculcata in menti che
spesso non vedono oltre la punta del proprio naso, il “padrone”
viene sempre più visto come il nemico da combattere, lo sfruttatore da
distruggere. Ormai quasi nessuno pensa al proprio datore di lavoro come
ad una persona che a sua volta deve affrontare un mare di problemi e che
non sempre vede nei suoi collaboratori pura e semplice carne da macello.
Non che gli
imprenditori siano tutti degli angioletti, ma se alcuni di questi hanno
portato avanti dei comportamenti, poco o tanto discutibili a chi
addossare la colpa? Certamente qualcuno lo avrà fatto per pura
dedizione all’avidità con relativa estrema spregiudicatezza e/o
peggio, ma quanti altri lo hanno fatto solo e semplicemente per
sopravvivere con le proprie famiglie ad uno stato di trattamento a dir
poco delinquenziale?
Sindacati e politici non si chiamino fuori!
GLOBALIZZAZIONE: E’ questo un altro aspetto che sicuramente penalizza
il mercato del lavoro. Non è una novità che alcuni paesi sviluppano
concorrenze basate esclusivamente sui prezzi, godendo di salari
estremamente bassi, su regole non regole, ma comunque con dedizioni al
lavoro che noi manco ci sognamo. Va rimarcato che il produrre a prezzi
estremamente concorrenziali non è frutto del mero e semplice basso
costo della mano d’opera; concorrono a questa soluzione anche la
dedizione al lavoro, alla produttività di squadra (ivi incluso il
rispetto verso il datore di lavoro), alla serietà in generale.
Non
dimentichiamo che alcuni decenni or sono, all’epoca del nostro boom
economico, fine anni 50 e inizio anni 60, anche noi facevamo le stesse
cose. I lavoratori erano per lo più degni di questo nome, molti erano
da definirsi con la “L” maiuscola.
Poi
c’è stato il periodo in cui una certa politica e sindacalizzazione
estrema, un po’ alla volta ha distrutto tutto ciò. Conseguentemente i
nostri, e non solo i nostri, imprenditori, vista l’impossibilità di
poter produrre e soddisfare quelle clientele che dei nostri validi
prodotti facevano continue richieste, un po’ perché forse dei veri e
propri imprenditori, di quelli con le palle (pardon, ma quando ci vuole
ci vuole) non ce n’erano poi tanti, un po’ perché fu più facile
stare al gioco, ma molto perché non ce la fecero a resistere a ricatti
ed ostruzionismi e sabotaggi di ogni sorta, furono costretti ad
abbassare teste e… brache; o comunque accettare di stare al gioco: a
quei giochi! Ad ogni buon conto quel periodo (non ancora scaduto) lo si
può classificare in una specie di connivenza ben ricambiata.
Chi non volle, ma questo vale sino a tutt’oggi, stare a quei
compromessi, chi era nelle condizioni di poterselo permettere, si
trasferì. Si trasferì in paesi dove l’imprenditore era desiderato,
stimato e finanche benvoluto, altro che qui che visto come il fumo negli
occhi. Quanti paesi stranieri hanno steso tappeti ai nostri
imprenditori, piuttosto che trappole come qui da noi?
Nacque così la “delocalizzazione”. Bella parola per dire che se qui
in patria, a casa mia, mi rompi le scatole per produrre, mantenere la
mia famiglia, e con essa anche quelle dei miei dipendenti, vado invece
dove posso produrre con tanti vantaggi in più e senza farmi sputare in
faccia, anzi.
E questo è stato solo
l’inizio di quel disastro economico che tutte le nazioni che non
disponevano di risorse naturali, e forse non solo quelle, e che facevano
del loro lavoro la ricchezza propria e nazionale, hanno subito.
Non dimentichiamo
che alcuni decenni or sono molte industrie che producevano macchine
fotografiche, e subito dopo, industrie motociclistiche, si
“delocarizzarono” in estremo oriente: Vogliamo ricordarci che fine
fecero quelle industrie? Anni dopo lo stesso avvenne con le grandi
industrie automobilistiche, non passa per la mente di nessuno che è
sempre la stessa strada che inesorabilmente porta al definitivo de
profundis?
Come era facilmente
prevedibile si è esportata tecnologia e marketing, al punto tale che
poi ci è tornata sotto forma di una naturale e più che ovvia
concorrenza:
MA SI PUO’ ANCORA ANDARE
AVANTI COSI’?
A CHI DIRE GRAZIE?
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